Stragi del “92: si potevano evitare?

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KLICCA 19 luglio 1992 – 19 luglio 2012

Stragi del ’92: Si potevano evitare? In Sicilia soffia aria di rinnovamento, grazie alla candidatura alla Presidenza regionale della signora Rita Borsellino. Rita, così, in modo semplice e immediato, il comitato elettorale dei DS ha deciso di promuovere la candidata, è sorella del compianto giudice Paolo Borsellino, rimasto vittima con la sua scorta, il 19 luglio del ’92, dell’onda stragista più violenta della mafia di Totò Riina, che solo appena due mesi prima, il 23 maggio, aveva travolto il giudice, amico e collega, Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e la scorta, nell’attentato che fece saltare col tritolo un tratto della Palermo-Trapani.

post del 26.05.2006 sul blog www.la-tua-voce.it

Stragi del ’92: Si potevano evitare? In Sicilia soffia aria di rinnovamento, grazie alla candidatura alla Presidenza regionale della signora Rita Borsellino. Rita, così, in modo semplice e immediato, il comitato elettorale dei DS ha deciso di promuovere la candidata, è sorella del compianto giudice Paolo Borsellino, rimasto vittima con la sua scorta, il 19 luglio del ’92, dell’onda stragista più violenta della mafia di Totò Riina, che solo appena due mesi prima, il 23 maggio, aveva travolto il giudice, amico e collega, Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e la scorta, nell’attentato che fece saltare col tritolo un tratto della Palermo-Trapani.

In Sicilia c’è “odore di libertà dalla mafia” come ha detto, in una delle ultime dichiarazioni alla stampa, Pietro Grasso Procuratore Capo dell’Antimafia Nazionale, dopo l’arresto del latitante d’oc Bernardo Provenzano, e dopo la vittoria del giovane movimento “Addiopizzo”, che incoraggia i commercianti siciliani a firmare e sostenere la lotta contro l’odioso racket che estorce il pizzo, la tassa a sostegno delle famiglie mafiose e dei loro detenuti. Le premesse sono senz’altro incoraggianti; ma, dopo i legittimi sentimenti di positività, occorre che l’entusiasmo lasci spazio ad una riflessione maturata lungo i percorsi della memoria, dove il sangue versato non può e non deve essere rimosso da steli e rituali commemorazioni, per tentare di capire, e, soprattutto, per credere di poter estirpare un male le cui metastasi si sono infiltrate nelle “cellule buone” della società, e non solo di quella siciliana. Il sistema affaristico-mafioso si è annidato nell’imprenditoria edile, nelle grosse catene di distribuzione commerciale, negli studi dei liberi professionisti, nei consigli comunali, transitando per le vie della politica sulle corsie preferenziali del potere. Questa è la “holding dell’antimafia” individuata dal figlio del giudice Borsellino, Manfredi, oggi Ispettore Capo della Polizia di Stato, nella lettera inviata a “Repubblica”, “Giornale di Sicilia” e “La Sicilia” nel maggio 2005, in cui attesta che “…è agli occhi di tutti che la c.d. Palermo bene, la Palermo dei circoli, la Palermo dei salotti buoni è inquinata, e lo è da tempo, da quando gli stessi rappresentanti delle istituzioni frequentavano, e purtroppo frequentano tuttora, persone sospette, chiacchierate o addirittura già destinatarie di inchieste giudiziarie”. Stando così le cose, forse, sarebbe lecito chiedersi se vero trionfo sia aver arrestato “Binnu u mitragliaturi” dopo 43 anni, ossia dopo che il boss corleonese più ricercato d’Italia ha dato disposizioni e ordini per mezzo di postini rispettosamente puntuali, ha tessuto la tela di interessi affaristici mafiosi, ha appoggiato trasversalmente il candidato politico di turno ritenendolo cavallo vincente al di là di simboli e correnti.

Davvero con un arresto, per quanto degno di riflettori, si può scongiurare quell’intrigato scenario in cui pericolosi interessi illeciti si sono innestati, ormai da decenni, nel sistema economico e della cosa pubblica? Davvero non si poteva indagare prima su nomi ed affari legati a filo doppio con il sistema mafioso? La legittimità di questi interrogativi va cercata nel riesame critico di fatti e documenti riguardanti gli arresti di boss latitanti da anni, sulle cui tracce, però, si è troppo indugiato, forse, alla ricerca di prove inequivocabili. Occorrerebbe soffermarsi, allora, su cotanta meticolosità profusa da inquirenti e nuclei investigativi speciali della Polizia, impegnati a passare ai raggi x il covo di Provenzano, individuato in una vecchia masseria a 2 Km dal centro del natio paese di Corleone. I riflettori sono stati accesi a lungo, tutti i reperti sono stati meticolosamente fotografati e, poi, catalogati e sequestrati; la televisione ha mandato in onda più volte le riprese del covo come in un reality, mostrando le abitudini del boss attraverso le inquadrature dei suoi effetti personali, dagli spazzolini da denti alla macchina da scrivere elettrica con tanto di carta velina per confezionare i “pizzini”del comando. Sperando che tanta profusione di uomini e mezzi sia sempre doverosamente impiegata in futuro, sarebbe opportuno a tal proposito ricordare quanto, invece, sia stata improvvisata, e frettolosa, la perquisizione del covo dell’altro decennale capo mafioso latitante, assicurato alla giustizia nell’anno successivo agli attentati al tritolo. Totò Riina, anche lui corleonese d’origine, anche lui introvabile sino al ’93, ovvero quando i Carabinieri lo individuarono in un’auto, al centro di una delle arterie stradali più trafficate di Palermo, a pochi metri dal luogo in cui si nascondeva da tempo con la moglie e figli, la villa di Via Bernini, intestata all’ingegnere Giuseppe Montalbano, sedicente uomo di sinistra, imprenditore in vista, della Palermo bene, dei salotti d’elite, degli appalti e degli impianti alberghieri miliardari. Allora l’incursione delle forze dell’ordine nel lussuoso covo fu posticipata, ci fu un vero e proprio svuotamento dei locali che poi vennero imbiancati, come si seppe dopo, dagli stessi uomini del mafioso Bagarella. Per gli errori d’indagine, casuali o causati da fraintendimenti d’ordine, si è svolto e si è recentemente concluso, com’è noto, un processo a carico dell’ufficiale del gruppo investigativo Ultimo e del Colonnello Mori. C’è stata un’assoluzione e ne prendiamo atto. Ma non si può non tener conto di altri fatti gravi, che rendono ancor più intrigato lo scenario delle indagini.

Esisterebbero segnalazioni e denunzie, pertinenti ai fatti sin qui ricordati, sporti alla Procura della Repubblica di Palermo che, ancora oggi, dopo circa un ventennio, rimangono, però, inspiegabilmente, sepolte sotto i tanti incartamenti; inchieste aperte e subito archiviate, che se invece fossero state lette con meno superficialità, probabilmente, avrebbero potuto accelerare le indagini sui nomi eccellenti della società palermitana, sui “colletti bianchi”, già classificati da Falcone, collegati ad ambienti di malaffare da una parte, e, dall’altra protagonisti del mondo politico della prima Repubblica in modo trasversale. Alla luce di quanto documenterebbe una denuncia risalente al lontano 1985, nasce quindi l’urgenza di capire se i boss dei boss davvero non potessero essere scovati molto prima, forse, in un tempo in cui si sarebbe potuto far luce sulla miscela esplosiva di interessi tra mafia, politica e imprenditoria che verosimilmente esitò, appena dieci anni dopo, nelle stragi del 1992. Nell’indagine svolta dal GI.CO. di Palermo nel 1993, poi archiviata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone, in riferimento a quanto già denunciato nel 1985, tra le vicende e gli elementi indiziari riguardanti l’ingegnere Montalbano vengono riportate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio che indica l’ingegnere come “prestanome” del patrimonio di Riina, che durante la latitanza poi trovò domicilio proprio in una villa a lui intestata. Nell’85 prima degli spunti investigativi del fascicolo fu pure consegnato al procuratore un nastro, sino ad oggi rimasto sigillato presso gli uffici della Procura di Palermo, su cui era registrata una conversazione telefonica trascritta dal GI.CO., e mai contestata sino al 1994 dalla procura al medesimo ingegnere, da cui però, si evinceva chiaramente che il Montalbano, essendo al corrente delle determinazioni sia della direzione della Cassa di Risparmio sia dei giudici della III^ Sezione Fallimentare di Palermo, dava un ultimatum ad un imprenditore, a cui cercava di estorcere la quota di maggioranza di un albergo, e che poi fu dichiarato fallito non essendosi piegato all’estorsione. Sembrerebbe che l’ingegnere avesse facilità d’accesso alle determinazioni della sezione fallimentare grazie a rapporti amicali intrattenuti per mezzo di suoi legali, a loro volta imparentati con gli stessi giudici fallimentari, come si deduce dalla registrazione telefonica in cui si fa riferimento ad incontri preliminari all’eventuale accordo per evitare il fallimento, da tenersi presso lo studio dell’avvocato Girolamo Bongiorno cognato del giudice Giuseppe Barcellona: tutto ciò portò alla ricusazione del giudice il cui nome è trascritto nel fascicolo del GI.CO. Per quanto riguarda i rapporti tra l’ingegnere e le banche, in merito alla Cassa di Risparmio, oggi assorbita dal Banco di Sicilia, sono in corso dall’ottobre 2005 le indagini per bancarotta e distrazione a carico di quattro ex direttori degli anni ’90, per un crac di 4 mila miliardi di lire e per un finanziamento di 20 miliardi di lire alla famiglia Graci di Catania. Ma lo stesso imprenditore taglieggiato, già nell’85, aveva anche denunciato gravi comportamenti illeciti della C.C.R.V.E.in concorso con lo stesso ingegnere Montalbano.

Che il Montalbano gravitasse tra affari e interessi per niente limpidi, oggi è dimostrato, in modo inequivocabile, oltre che dalla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, arrivata solo nel 2002, dal fatto di essere stato sottoposto al regime di soggiorno obbligato essendo indicato come “soggetto socialmente pericoloso”. Inoltre è interessante scorrere il fascicolo del GI.CO. lì dove si legge che già in un interrogatorio del 1993, cui fu sottoposto il Di Maggio, questi dichiarò che “…subito dopo la morte di Inzerillo Salvatore, si recò a Monreale con Brusca Giovanni in un villino in zona Aquino abitato, secondo Brusca, da Riina Salvatore”. Di Maggio, secondo il verbale di deposizione, affermò di ricordare che quel villino era intestato a tale ingegnere Montalbano su espressa richiesta di Lipari Giuseppe. Infine è lo stesso Brusca che afferma di ricordare “ di aver detto a Di Maggio che l’ingegnere risultava intestatario anche di altri beni in realtà appartenenti a Riina”.

Quanto qui riportato sembrerebbe inserirsi in un’analisi più complessa, che vede arrivare Montalbano, non certo casualmente, lungo lo snodo politico imprenditoriale della provincia palermitana e trapanese, al centro di incroci pericolosi con mafiosi del calibro di Riina (“capo dei capi” su cui grava il regime del 41 bis e indicato come responsabile della decisione degli attentati contro Falcone e Borsellino), Brusca (oggi collaboratore di giustizia nella cui disponibilità sono stati trovati due telecomandi riconducibili al progetto di un attentato contro il Procuratore Grasso, e la DIA indaga sulla possibilità che la mafia ne fosse già in possesso prima dell’attentato di Via D’Amelio), Lipari (geometra dell’ANAS oggi anche lui indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e come prestanome di beni mafiosi); si tratterebbe cioè di quel braccio criminale che siglò col sangue di troppi uomini onesti una fase in cui la mafia si fece ancor più violenta, sino alla decisione estrema delle stragi. Nel 1995 in merito al contratto di locazione di via Bernini 52/54, i P.M. G. Pignatone, R. Scarpinato, V. Teresi ritennero di dovere archiviare l’inchiesta nei confronti del Montalbano attestando che “il solo fatto che Riina abitasse in una villa di una società facente capo a Montalbano non fosse sufficiente a dimostrarne la responsabilità”; a sostegno di tale richiesta di archiviazione i P.M. citarono le comprovate modalità di legge con cui la villa venne data in locazione al sig. “Bellomo”, sotto il cui cognome si celava l’identità di Salvatore Riina. L’ingegnere, poi, nel 1999, sarà arrestato per la presenza di Salvatore Di Gangi nel complesso alberghiero di sua proprietà “Torre Makauda”, a Sciacca: anche in questo caso comunque l’accusa cadde perché, secondo la Procura, nel periodo in cui il mafioso fu ospite di Montalbano “non era latitante”, ergo l’ingegnere non ne protesse la latitanza. Ancora un nome eccellente ci riporta al Montalbano, quello di Pino Lipari, il geometra della mafia, già citato da Di Maggio, anche lui, casualmente, inquilino in comodato d’uso, di un appartamento di Via Aquileia a Palermo sempre nell’annovero delle proprietà dell’ingegnere imprenditore, che ancora una volta si è dichiarato del tutto estraneo al soggetto e di non saper nulla degli affari curati dal suo inquilino. Insomma, sembrerebbero tutte casualità, a detta dell’ingegnere, che si sono accanite su un sedicente rappresentante del PC, che sempre solo per caso, e per lavoro, lambiva il giro milionario degli appalti pilotati da Antonio Alfano, un ex amministratore comunista arrestato a Palermo con l’accusa di associazione mafiosa; e che, sempre a suo dire “ha avuto la sola colpa di essere imprenditore”, sorvolando sulla titolarità di beni per 400 miliardi delle vecchie lire. Eppure queste proprietà sono state confiscate a Montalbano, a seguito dell’unica condanna a sette anni e mezzo comminatagli dalla Procura di Sciacca nel 2002, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa; le proprietà e le quote societarie sono state ricondotte a Riina, come aveva dichiarato Di Maggio e come venne riportato nel fascicolo del GI.CO. di cui si è detto, archiviato su richiesta dei P.M. E. La Neve e del Procuratore della Repubblica Aggiunto V. Aliquò. C’è da chiedersi, se sia stato ancora solo il caso a volere che, nel giugno 2005, il patrimonio sequestrato a Montalbano gli sia stato riassegnato con la sentenza di un giudice, trasferito dalla Terza Sezione Fallimentare alla Corte d’Appello di Palermo- sezione misure di prevenzione. Tra i beni dissequestrati si annovera, inoltre, il complesso “Torre Makauda” e la società di gestione; un patrimonio di circa 250 milioni di euro a fronte della pur riconosciuta pericolosità dell’imputato che, oggi, vive in soggiorno obbligato nell’agriturismo di proprietà della moglie.

Alla luce di questi fatti, all’apparenza contraddittori, c’è da chiedersi, allora, se ci siano stati particolari motivi, già nell’85, perché alcuni giudici non ritenessero interessante la denuncia sporta contro Montalbano e altri soggetti; e perché il dott. Pignatone non ritenne opportuno almeno ascoltare la registrazione del fatto estorsivo su ricordato e approfondire le indagini sui fatti denunciati. Forse, venti anni fa, si sarebbero potuti, almeno, tenere d’occhio quelli che erano solo i primi passi mossi da un gruppo di affaristi in erba, che dietro la trasversale militanza politica, tessevano rapporti che nulla avevano a che fare con il pubblico interesse. Vero è che si andava verso gli anni più discussi e contraddittori della Procura di Palermo, di cui alcuni fatti furono resi noti nel giugno 1992, subito dopo la strage di Capaci, dall’Espresso e da La Repubblica, che pubblicarono alcuni episodi che Falcone avrebbe raccolto nel suo diario. Si tratta della cronaca dettagliata degli ultimi mesi di Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo e dei suoi contrasti con il Procuratore capo Giammanco. Il senatore socialista Maurizio Calvi, stando alla cronaca, ex vicepresidente della commissione antimafia, in quei giorni confermava l’esistenza dei diari di Falcone, e inoltre affermava che Falcone durante un viaggio a Vienna gli parlò dell’intreccio a Palermo tra la mafia e pezzi importanti delle istituzioni, nel senso che Falcone non si sarebbe fidato in alcun modo né della questura di Palermo, né del Comando dei Carabinieri di Palermo, né tanto meno di alcuni personaggi importanti della Prefettura di Palermo.

Tutto ciò fu poi confermato dall‘amico Borsellino. Il magistrato conferma l’autenticità dei diari di Falcone pubblicati dal Sole 24 Ore, il 24 giugno 1992 in un articolo a firma di Liana Milella, e dà ragione a Caponnetto: “Falcone cominciò a morire nel 1988, anche se con ciò non intendo dire che la strage sia stata il naturale epilogo di questo processo di morte…Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la statura di quest’uomo e ci accorgiamo come il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio 1988, se non addirittura l’anno prima, quando Leonardo Sciascia bollò me come un professionista dell’antimafia e l’amico Leoluca Orlando professionista dell’antimafia della politica“. E sempre in merito alle divergenze interne alla procura tra Falcone ed i colleghi veniva pubblicato un appunto del diario datato 13 dicembre 1990, in cui il giudice Falcone scriveva “nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella, (ndrGiammanco) mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta.18 dicembre 1990: dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli (ndr Giammanco) ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili con il vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece, sia egli, sia Pignatone, insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.19 dicembre 1990: altra riunione con lui, con Sciacchitano e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra. Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio. Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’On. Avellone, a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa (gli ultimi due non fanno parte del pool)….“. Non a caso percorrendo i sentieri della memoria, nel pieno rispetto delle parole e dei ragionamenti di chi ha dato la vita alla ricerca della verità, torniamo indietro di nuovo al decennio 1980/90, anni cruciali in cui, forse, chi doveva sovrintendere all’ordine e alla giustizia fu distratto, lasciando che si facessero strada pochi giudici inquirenti, come Falcone e Borsellino, che dovevano lottare fuori e dentro i propri uffici, anche soltanto per ottenere la delega alle indagini avviate. Certo, con il senno di poi, tutto sembra più chiaro, ma troppi dubbi ancora offuscano la verità, soprattutto lì dove non si comprendono gli esiti negativi degli appelli più volte lanciati dal Procuratore Grasso, e dal Presidente uscente Ciampi, che in più occasioni pubbliche in Sicilia hanno chiesto la collaborazione della società civile per denunciare, o almeno segnalare indizi da sottoporre alle forze dell’ordine ed ai loro inquirenti. Non si comprende allora come possano essere accaduti fatti gravi come il caso qui descritto, in cui denunzie sporte e preziose indagini svolte, oggi convalidate dai nomi degli indagati e dalle cronache, siano rimaste archiviate e sepolte presso la Procura di Palermo. Che, oggi, sembra comunque aver svoltato verso le strade su cui far camminare le idee di uomini come Falcone e Borsellino che, non da eroi, bensì da inquirenti consapevoli, avevano forse individuato una pista che conduceva alla svolta manageriale politico-mafiosa che, negli anni ‘90, servendosi della manovalanza armata, si proiettava ben oltre i ristretti confini della Sicilia. Proprio qualche mese fa alcuni giornali pubblicavano l’affermazione del tenente dei carabinieri Carmelo Canale, poi ascoltato dalla Procura di Caltanissetta, che, asserisce non solo che ancora non sono stati individuati i mandanti delle stragi, ma che il giudice Borsellino collegava in qualche modo l’uccisione di Falcone con le indagini svolte in relazione a mafia e appalti.

Oggi stando ai fatti questa potrebbe essere la pista da seguire, specie se si tiene in considerazione la mole di indagini, ed i conseguenti sequestri di tutte le aziende inserite nel giro d’affari che la mafia ha gestito nel settore degli appalti e dei subappalti, mediante l’infiltrazione nei cantieri e con il gioco dei ribassi illegali. Anche la politica, in modo trasversale, si è ultimamente sensibilizzata a questa urgenza, e si sta attivando al fine di poter rendere la gestione delle opere e degli appalti più trasparente, e, al contempo, penalizzante per le aziende che ancora siano soggiogate al pizzo. Dunque il cerchio sembra stringersi proprio attorno alla questione morale sollevata dal Commissario Capo Manfredi Borsellino, che ha individuato la “holding dell’antimafia” nei salotti buoni di Palermo. Ossia in quel reticolo amicale e clientelare tra politici, avvocati, commercialisti, aziende e imprenditori di grosse catene di distribuzione commerciale, consorzi, e, forse, anche soggetti in contatto con logge massoniche: un multiforme connubio di interessi che sembra ripercorrere la via battuta da Montalbano, forse collegandosi ancora oggi a lui, e che influenza l’economia isolana con modalità che sembrano non proprio limpide, oltrepassando troppe volte i confini della vera e propria collusione mafiosa. E’ vero la selva è oscura, ma qualche maglia della rete malavitosa, dopo un ventennio si è allentata; ora si potrebbe cominciare a far luce indagando ancora sui rapporti che i prestanome della mafia continuano ad allacciare col tessuto sociale , tenendo conto del lavoro di investigazione già svolto dal GI.CO di Palermo. All’attenta lettura del fascicolo si apre un nuovo scenario: se le vicende denunciate fossero state approfondite prima del 1992 con adeguate indagini investigative, Falcone e Borsellino si sarebbero salvati? Perché alcuni giudici della Procura della Repubblica di Palermo, archiviando per cinque volte, non hanno tenuto in giusta considerazione le denunce che già dal 1985 sembravano indicare collusioni della “Palermo Bene” con ambienti sospetti? Lasciando aperti questi interrogativi, si spera che il vento del cambiamento in Sicilia ora soffi forte sulle coscienze di tutti, specie di coloro cui è demandato il potere del controllo sociale a salvaguardia delle regole del vivere civile e del benessere collettivo.

a.p., palermo

post del 26.05.2006 sul blog www.la-tua-voce.it

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