Mafia, cancro e commistioni

 

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Nel settembre scorso ho rilasciato un intervista (per chi volesse leggerla clicchi su Google Baldassare Bonura www.letterepersiane.it), inviata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ed agli organi giudiziari, in cui rispondevo alle domande su chi o che cosa fosse a mio parere oggi la mafia in Sicilia. Colgo al volo la domanda di Libera Mente “ ma che è ‘sta mafia” ritenendo di avere legittimità a rispondere per la lotta al sistema politico-mafioso sostenuta da me dal lontano 1985 sino ad oggi. Avendo raccolto fatti e documenti da più di venti anni, e dopo aver letto le ultime notizie di cronaca sul tribunale di Vibo e sulla rete di ‘ndrangheta, giudici, politici e affari, confermo e sostengo quanto sottolineato dal regista Renzo Rossellini nella sua pellicola “Diritto di sognare” presentata a Gela il 15 novembre in anteprima. Il regista con un collage di interviste a personaggi e giudici protagonisti della lotta alla mafia descrive una Sicilia “piegata alla criminalità, al malaffare, alla mafia che diventa economia, sistema, modo di pensare”, ed io aggiungerei una fitta e cancerosa commistione di interessi di carattere economico e di potere politico-mafioso che, purtroppo, sconfina nel tessuto dello Stato e delle sue Istituzioni, coinvolgendo sia gli organi giudiziari che quelli inquirenti.

Duole ma è doveroso testimoniare le numerose archiviazioni con cui o per connivenza, o forse per paura, sono state chiuse le indagini inerenti la mia vicenda dal 1985 al 2005 presso la Procura di Palermo, nonostante mi sia più volte appellato direttamente all’allora Capo della Procura antimafia dott. Pietro Grasso, al quale ho pure indicato nomi e fatti circostanziati che hanno determinato il mio fallimento. Ma ciò nonostante le indagini non sono mai iniziate. Come si evince dalle cronache, non solo in Sicilia, ma in tutta Italia le Istituzioni sono pervase da una degenerazione dei principi base dell’etica stessa di uno Stato di diritto e democratico. Questo ha lasciato spazio al consolidamento di interessi personali di una cerchia ristretta, ed alla scorribanda di faccendieri collusi, appartenenti sia al mondo politico sia a quello finanziario e imprenditoriale, resi più forti dalla miopia di certa magistratura. Eppure già vent’anni fa i giudici Borsellino e Falcone, sulla via delle indagini iniziate dal Generale Dalla Chiesa, insieme ai pochi colleghi di cui si fidavano presso la Procura palermitana, avevano delineato chiaramente negli incartamenti del maxiprocesso il terzo livello dei reati di mafia, ossia le collusioni dei padrini con il mondo economico e con i colletti bianchi, dai Salvo come antesignani della “borghesia mafiosa”, alle famiglie dei Bontate dei Buscetta, dei Badalamenti, ovvero quella commistione di rapporti parassitari e di corruzione nati e cresciuti al sicuro sotto le protezioni di una politica gestita in modo feudale. A quattordici anni dalle stragi del ’92, culmine inevitabile del percorso di sangue dove rimasero uccisi Dalla Chiesa, Chinnici, La Torre, insieme a commissari ed investigatori onesti, quelle piste investigative sono oggi realtà comprovate da sentenze già emesse, da indagini in corso e da indizi probatori inequivocabili.

Urgerebbe allora indagare e insistere in quella direzione; cercare i mandanti di omicidi e di stragi lì dove, dietro le porte dei “salotti buoni“, e degli studi professionali, e dei consigli di amministrazione, un pugno di uomini a vario titolo decide le sorti della Sicilia, forte delle coperture compiacenti anche di certa magistratura. Sergio Troisi, nell’articolo di Repubblica Palermo ( 14/11/06) “La Maschera ambigua della città borghese”, dà una lucida lettura sociologica dell’inquinamento mafioso che ha sporcato tutti i territori della società civile, in cui “ il camuffamento è la condizione necessaria” all’ameba mafiosa che “ibrida e mischia continuamente i confini tra legalità e illegalità”. Quadro abilmente ritratto dal professore Umberto Santino nell’articolo “ I padrini borghesi del sud” su Repubblica Palermo (10/11/06), che rappresenta il “paradigma della complessità” dell’organizzazione criminale come “componente di un blocco sociale transclassista, dominato da soggetti illegali e legali (professionisti, imprenditori, politici, rappresentanti delle istituzioni) più ricchi e potenti, definibili come “borghesia mafiosa”. Chi scrive ha denunciato proprio questa miscela esplosiva di interessi tra mafia, affari e politica, e continuerà a farlo sino a quando non sarà ascoltato nelle sedi giudiziarie competenti; purtroppo deve però testimoniare che la stampa ufficiale ha solo timidamente pubblicato parte della storia che lo riguarda, e deve molto ai blog e ai forum il cui spazio concesso è una delle poche garanzie alla sua incolumità, dopo aver denunciato un gruppo di professionisti e imprenditori siciliani per contiguità a interessi e clan mafiosi, attualmente sotto indagine, unitamente ad alcuni giudici del Tribunale di Palermo per denegata giustizia. Ancora oggi non ho mai ricevuto alcuna comunicazione dalla Prefettura, presso la quale avevo informato un anno fa il dott. Giosuè Marino sulla pericolosità della mia decisione di non voler soccombere ad alcun patto scellerato con la mafia, pur cosciente di correre seri rischi. Invece, in questi giorni, ho ricevuto comunicazione dalla Segreteria della Presidenza della Repubblica di aver informato il CSM sulla mia travagliata e quanto mai scandalosa questione giudiziaria; fatto questo attestante la mia onestà e la mia buona fede, che nessun assegno ha potuto silenziare, e in virtù della quale continuerò a chiedere giustizia. In merito ai fatti di cronaca calabresi, speculari alla mia storia, faccio riferimento al magistrato, con aspirazioni da manager alberghiero, finito in manette perché accusato di essere stato stipendiato e imbonito da auto e regalie dalla ‘Ndrangheta calabrese, inchiesta che vede coinvolti politici e imprenditori, avvocati ed un ex presidente della Regione. In questo caso si potrebbe dire che il ponte tra Sicilia e Calabria c’è già, ed è quello che vede uniti curatori fallimentari parziali, avvocati facinorosi e interessati a far business, magistrati aggiusta processi, architetti ed ingegneri dal progetto facile, tutti ben saldi alla lobby dell’illecito guadagno assicurato dal potentato del capo cosca locale. Anche nella mia storia c’è un fallimento, quello ingiustamente richiesto a mio danno nel 1985; c’è pure un albergo in una bella e amena località, Ustica a due passi da Palermo e dal composito connubio d’interessi affaristico-imprenditoriali; c’è poi un ingegnere dal giro d’affari miliardario per il vecchio conio, oggi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nonché proprietario dell’ultimo covo di lusso del boss Riina; al professionista si legavano pure, come a Vibo, vassali dei salotti bene, politici, avvocati e giudici, tutti amici pronti al mutuo soccorso all’occorrenza in nome del principio del “do ut des”. Forse non a caso allo stesso ingegnere, ancorché condannato a sette anni e mezzo, e per di più costretto a soggiorno obbligato perché “soggetto socialmente pericoloso”, nello scorso anno sono stati dissequestrati i beni per un valore di 250 milioni di euro “perché frutto di attività lecite”; eppure rimangono sequestrate la villa covo e la “ICIT” srl, impresa impiantistica a due passi dalla Calcestruzzi e dallo svincolo di Capaci, scenario spettrale dell’attentato in cui morì il giudice Falcone, il giudice Morvillo e la scorta. Tornando allo scandalo del paese-feudo del magistrato, come nella Procura calabrese, anche in quella palermitana le sentenze erano già scritte: la telefonata che registrai all’insaputa dell’ingegnere che tentò l’estorsione a mio danno, conferma come già fosse al corrente della sentenza del giudice fallimentare, così anch’io fui posto di fronte all’aut- aut: o l’albergo o il fallimento. Scelsi, cosciente delle gravi conseguenze, la seconda delle due vie, scelta di cui ancora oggi sono convinto in nome dell’onestà che ha contraddistinto la mia famiglia.

Mi è stato tolto il patrimonio, insieme all’attività; mi hanno ridotto sul lastrico falsando atti e insabbiando denunce; con l’istituto dell’archiviazione sono state emesse pseudo sentenze per salvaguardare le aziende e i nomi dei potenti, sì perché “la gente di Ustica non si tocca” come ebbe a dire, tra le altre minacce, un mio ex legale oggi sotto inchiesta per truffa e da me denunciato per minacce e per infedele patrocinio.

Le prove di tutto ciò erano impresse su quel nastro magnetico, ormai obsoleto e sepolto dalle archiviazioni, seppur trascritto dal GI.CO. della Guardia di Finanza che al contrario reputandolo d’interesse indagò sul mio decennale fallimento, sulle palesi irregolarità formali commesse dai giudici della sezione fallimentare ricusati, sul dubbio operato dal curatore fallimentare che chiuse l’albergo contro gli stessi interessi dei creditori, sull’abuso di potere dei sindaci su cui indagò anche il giudice Paolo Borsellino, e sulle dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca in merito alle proprietà dell’ingegnere secondo lo stesso riconducibili a Totò Riina. Se su quei fascicoli non fosse stato imposta la congiura del silenzio con le ripetute archiviazioni disposte sempre dagli stessi giudici, si sarebbe potuto continuare ad indagare, per risalire forse proprio a quegli imprenditori che usavano le diverse tessere di partito a seconda del responso elettorale, e che riciclavano denaro illecito in attività solo formalmente legali, al sicuro sotto la protezione di ampia parte del tessuto politico e giudiziario. Con buona probabilità, e lo dico con profonda tristezza, quella era una delle vie sulle quali stavano incamminandosi, prima di essere fermati, giudici come Falcone e Borsellino, che già nel maxiprocesso avevano volto le indagini verso lo scenario dell’imprenditoria agli albori di un commercio globale già ben saldo al di là dei confini isolani e nazionali. Tra quegli imprenditori non a caso alcuni giudici encomiabili, come il dott. Di Natale, cui va il merito di riportare in alto il giudizio e la fiducia dei cittadini nella magistratura italiana, oggi stanno tornando ad indagare, contro il palese intorpidimento dei più, per individuare i mandanti “a volto coperto” ideatori delle stragi dell’estate del 1992. Anche questi giudici però sono costretti a testimoniare nelle interviste ai giornali i limitati mezzi d’indagine di cui dispongono, quando non ci si ritrovi numericamente da soli di fronte a pratiche e fascicoli che gridano giustizia. Più volte, negli ultimi mesi, ho cercato di richiamare l’attenzione delle Istituzioni sul mio caso, che pur circoscrivendo una vicenda personale offre una chiave di lettura del malaffare che in Sicilia, e in Italia, imperversò dagli anni ’80 sino alla caduta della cosiddetta Prima Repubblica. Eppure sono ancora in attesa di essere convocato quanto prima dagli organi inquirenti e giudicanti già al corrente delle mie denunce, per chiedere e fare giustizia, e per contribuire a fare luce sull’onda lunga della corruzione che, come si legge nelle ultime notizie, ha sconfinato nelle aule dei tribunali e degli scranni dei rappresentanti della politica rischiando di diventare una prassi in un Paese che è chiamato a interrogarsi sul senso dell’etica, dell’onestà e della democrazia.

Ciò che deve incoraggiare “chi denuncia”, remando contro il sistema inquinato, è che dalle indagini della Dda di Salerno sembra che sia giunto il momento in cui la stessa Magistratura voglia rinnovarsi lì dove la giustizia è stata violata dall’interesse personale, e dalla deviata convinzione che la stessa dovesse essere amministrata per il facile arricchimento di pochi adepti sfruttando, quel che è peggio, la protezione dei clan con il reciproco scambio di favori. La strada del cambiamento rende onore a quei giudici che hanno avuto il coraggio di iniziare a recidere i rami secchi dell’apparato istituzionale per restituire al cittadino quella fiducia nelle Istituzioni che è normale nutrire in un paese libero e democratico.

Baldassare Bonura – 16 Novembre, 2006

Mafia, cancro e commistioniultima modifica: 2006-11-16T18:21:00+01:00da aldo251246
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