Morire di mafia senza giustizia

E’ più facile morire di mafia che ottenere lo status giuridico di vittima di mafia. Questo è solo uno tra i tanti paradossi scritti sulle pagine siciliane di cronaca nera tra le righe dei fascicoli riempiti da contorti verbali d’indagine cui sono seguite archiviazioni, sentenze mai emesse, tardive o ancora attese. E’ un fatto ben noto che se non fosse per le denunce e le testimonianze dei familiari, e dei movimenti e delle associazioni d’impegno civile, molte delle inchieste sugli omicidi “di e per” mafia sarebbero rimaste archiviate o, peggio, istruite genericamente contro “notissimi ignoti”. E tutto ciò è accaduto nonostante l’evidente efferatezza della costruzione della scena degli omicidi, malgrado le testimonianze di parenti e amici, e a dispetto della lotta personale e pubblica intentata dalle vittime designate contro il sistema mafioso-politico esprimendo opinioni e facendo denunce sulle emittenti radio, o più semplicemente non svendendo ai mafiosi le proprietà per non agevolare speculazioni e affari.

di a.p.

Palermo,7.01.2007

Quel che più offende la sensibilità dei familiari innanzi tutto, e di chi li condivide per amicizia, per empatia, e per scelta morale, è che ai caduti sul campo non solo si nega, con depistaggi, con preconcette scelte investigative e con pregiudizievoli deduzioni giuridiche, il dovuto riconoscimento di “vittime” di odiose sentenze decretate nei consessi mafiosi, ma che il predestinato a morte sia ritenuto scomodo pure da morto. La vicenda emblematica della sanguinosa escalation mafiosa tra gli anni ‘70 e ’80 è quella di Peppino Impastato, e dei vent’anni impiegati dalla madre e dal fratello, insieme al Centro Impastato, per far riaprire le inchieste più volte chiuse presso la Procura della Repubblica di Palermo, il cui impegno civile alla fine ha ottenuto la sentenza di condanna a carico del capo mafia mandante dell’omicidio Gaetano Badalamenti, grazie alle testimonianze dei pentiti che hanno confermato la tesi dell’omicidio di mafia sostenuta sin dal maggio 1978 dalla famiglia Impastato. Il boss sperava di cancellare con Peppino Impastato anche il “disonore” che di fatto lo rese più debole di fronte ai capi mafia Riina e Provenzano che negli anni settanta decidevano di scendere da Corleone per far business tra Carini, Capaci, Torretta e Partinico. Eppure sono trascorsi più di vent’anni prima di riconoscere Peppino Impastato come vittima di Cosa Nostra. Per chi di mafia vuol capire, e per chi alla mafia vuol gridare “NO”, è doveroso leggere la sentenza 41/99 R.G.C. Assise n. 10/02 emessa dal Tribunale di Palermo contro Badalamenti, a cui si sarebbe potuto arrivare tanti anni prima solo se chi di dovere avesse indagato sulla pista mafiosa, l’unica a rigor di logica percorribile, piuttosto che fantasticare sugli echi del terrorismo che, intanto, imperversava ben al di là dello stretto. Del resto il giudice Chinnici, puntualmente ucciso, aveva più lucidamente compreso che l’omicidio Impastato non era un episodio di cronaca nera a sé stante, ma l’esito di un ben più complesso groviglio d’interessi contrapposti in gioco sul campo degli affari delle cave, dell’edilizia e della politica. Non fu un caso se Peppino fu ucciso poco prima della sua elezione alle comunali e nel pieno delle indagini che poi avrebbero condotto al maxiprocesso. Quella di radio aut era una voce troppo scomoda, dunque, che col suo timbro chiaro e pungente gridava contro il malaffare delle cosche contrapposte che da lì a poco avrebbero fatto il salto in politica. L’omicidio di Impastato, le incongruenti indagini dell’Arma dei Carabinieri, le archiviazioni della Procura di Palermo, fanno da paradigma per chi allora aveva appena otto anni e che, oggi, vuol capire i nodi di quello scenario in cui, dagli anni ottanta in poi, mafia, imprenditoria e politica si interconnessero trovando facile appiglio tra le maglie larghe del tessuto borghese. Oggi, grazie al percorso investigativo segnato dal sacrificio di magistrati, di commissari, e di uomini e donne delle scorte, la contiguità della “borghesia mafiosa” con le cosche è assurta a dato di fatto, conclamato da indagini e sentenze. Come già ampiamente anticipato dal commissario Manfredi Borsellino, figlio del compianto giudice, anche Francesco Forgione, neopresidente della Commissione parlamentare antimafia, sostiene che “dopo Provenzano ora si deve colpire la borghesia mafiosa” e che “la vera cupola è fatta di politici, professionisti e imprenditori” (da Repubblica- Il Venerdì 5 gennaio 2007 ). Sottoscrivendo pienamente questo assunto, non si può però fare a meno di pensare a quanto sia stato alto il prezzo pagato in termini di vite sacrificate per arrivare a verità a tutti note ma troppo scomode da dimostrare. In tanti, in troppi sono morti per aver indicato i colpevoli, le loro amicizie importanti, e i loro interessi illeciti, facendo pubblica denuncia, accusando coraggiosamente, scrivendo sui giornali la nocività dell’inquinamento mafioso. Si deve alle famiglie delle vittime della mafia, riconosciute e non, ed alla società civile che le ha affiancate, e che continuerà a supportarle, l’essere giunti a verità a lungo sottaciute e disperse nei meandri della burocrazia. Ora è tempo che con maggiore sollecitudine le Istituzioni, i giudici e i corpi investigativi rendano giustizia in tempi brevi a chi si è contrapposto a Cosa Nostra, e che, al contempo, indaghino più celermente sulle denunce sporte da cittadini onesti, perché nel tempo intercorso tra un riscontro dei pentiti e la stesura di un verbale, non si debba più leggere sulla cronaca di morti annunciate.

a.p.
7.01.2007

Morire di mafia senza giustiziaultima modifica: 2007-01-07T21:12:00+01:00da aldo251246
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