E’ recente la notizia della conclusione dell’inchiesta della Dia di Caltanissetta sulla cooperativa “Agroverde” da 20 milioni di fatturato annuo, il cui titolare, dopo essere stato legittimato a simbolo dell’antiracket di Gela per aver denunciato gli estorsori, e dopo aver ottenuto anche la scorta, ora è indagato con l’accusa di aver riciclato prima del 2005 i soldi della Stidda e di Cosa nostra.
Di seguito pubblichiamo gli articoli: “Lari: vicenda sconcertante, ma le prove sono pesanti” di Massimo Sarcuno, “Era un simbolo dell’antiracket. Ora è indagato per riciclaggio” di Giuseppe Martorana, tratti dal “Giornale di Sicilia” dello scorso 5 novembre 2008.
Come ha affermato il Procuratore di Caltanissetta Sergio Lari : «Sbaglia chi pensa di farla franca per aver ottenuto una patente antimafia»; ma per chi segue la cronaca siciliana, e per il cittadino comune fuori da associazioni e studi legali impegnati nella lotta al malaffare, rimane un interrogativo aperto: dove sono le falle del sistema che controlla le cordate dell’ “antiracket”?
Troppe volte, come la cronaca degli ultimi anni attesta, i margini tra racket e antiracket si assottigliano tanto da incappare nelle pieghe tangenti proprio a quei tessuti impermeati da collusioni e compiacenze avvezze al riciclaggio e alla corruzione, che poi sfociano nei canali finanziari utilizzati per ripulire la montagna dei “soldi dei sacchetti di plastica”, che, tranquillamente, passano di mano in mano dagli aeroporti agli sportelli bancari di mezzo mondo.
Negli articoli si legge che l’indagato dice di “essere tranquillo e che chiarirà tutto”, mentre la Procura afferma che “le prove sono granitiche”; chi legge rimane legittimamemte perplesso sul perché i controlli delle prefetture e degli organi preposti agli accertamenti non siano preventivamente in grado di sbarrare il passo agli ormai numerosi “doppiogichisti” dell’antimafia.
Lari: vicenda sconcertante, ma le prove sono pesanti
Tratto dal “Giornale di Sicilia” 5 dicembre 2008
di Massimo Sarcuno – Calanissetta
«Se qualcuno pensa di farla franca solo per avere ottenuto la patente di vittima della mafia, si sbaglia. La legge è uguale per tutti». Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, ieri ha ammesso un certo iniziale imbarazzo, suo e degli investigatori della Dia, nel dovere indagare sui conti di Stefano Italiano, imprenditore fino a ieri al di sopra di ogni sospetto, una delle icone dell’antiracket gelese, con alle spalle una storia recente fatta di strette di mano a ministri e apparizioni sulle tv nazionali.
«È una vicenda – dice Lari – per certi versi scioccante. Ma di fronte agli indizi raccolti dalla Dia credo rimanga poco o nulla da dire. Le prove sono granitiche». Italiano vive sotto scorta. È inoltre parte lesa in due processi che vedono alla sbarra alcuni mammasantissima del pizzo.
«Non tocca a me – dice Lari – stabilire se Italiano meriti o meno la tutela personale. È compito del Comitato per l’ordine e la sicurezza occuparsene». Quanto alla mancata richiesta di custodia cautelare il procuratore è stato chiaro. «Abbiamo puntato sul sequestro preventivo – dice – ritenendolo il provvedimento più efficace. Anche perché non potevamo chiedere di mettere in carcere un soggetto al quale contestiamo fatti antecedenti il 2005. Erano cessati i requisiti di legge». E Italiano, nel frattempo, era diventato un simbolo dell’antiracket. (*MAS*)
Era un simbolo dell’antiracket. Ora è indagato per riciclaggio
GELA. Stefano Italiano, 46 anni, è il presidente della «Agroverde» e tre anni fa aveva denunciato il pizzo: «Chiarirò tutto»
Tratto dal “Giornale di Sicilia” – 5 dicembre 2008
di Giuseppe Martorana – Caltanissetta
Nell’inchiesta sono coinvolti un socio e sette fra dirigenti e funzionari di banca
Secondo l’accusa nella cooperativa sarebbero stati investiti soldi di Stidda e Cosa nostra. Sequestrati 32 milioni di capitale. L’uomo vive sotto tutela. Da simbolo dell’antimafia a indagato per riciclaggio con l’aggravante di avere favorito Stidda e Cosa nostra. Protagonista il presidente della cooperativa Agroverde di Gela, e vicepresidente dell’associazione antiracket della stessa città del Golfo, Stefano Italiano, di 46 anni. Sul suo capo si è abbattuto il maremoto scatenato dalla indagini della Dia di Caltanissetta. Un maremoto dopo due anni di indagini concluse, per il momento, con la richieste presentata dalla Procura e disposta dal Gip del Tribunale di sequestro della cooperativa Agroverde.
Una cooperativa, che fattura 20 milioni di euro l’anno, che era diventata il simbolo della lotta al racket dopo che proprio Stefano Italiano aveva denunciato gli esattori del pizzo. È stato lui, infatti, assieme al sindaco di Gela, Rosario Crocetta (il quale ora afferma che «se le accuse fossero provate sarebbe una grave sconfitta per la gente onesta»), a spingere in questi anni con l’esempio altri commercianti gelesi a denunciare, tant’è che pure l’allora ministro degli Interni Giuliano Amato si recò all’Agroverde per complimentarsi. Adesso il sequestro, che comprende il capitale della cooperativa, gli impianti aziendali e tutte le disponibilità bancarie della società per un valore di 32 milioni di euro. L’indagine della Dia è finalizzata a fare luce sui meccanismi economico-finanziari di Stefano Italiano, che per l’accusa consentivano di riciclare grandi somme di denaro proveniente dalle attività illecite delle cosche e nel contempo acquisire contributi pubblici per importi elevatissimi destinati a ristrutturare gli impianti che venivano poi realizzati da ditte riconducibili al clan mafioso dei Madonia.
Per riciclare il denaro l’imprenditore Stefano Italiano, secondo l’accusa, avrebbe utilizzato il meccanismo dell’aumento di capitale. Con lui sono indagati anche un altro socio della cooperativa Agroverde e sette fra dirigenti e funzionari dell’ex banca Ambrosiano-Veneto accusati per non aver applicato la normativa antiriciclaggio. «In banca – hanno detto gli investigatori – si presentavano con i sacchetti di plastica pieni di soldi e versavano tranquillamente e senza controlli, grazie agli impiegati compiacenti». Gli inquirenti sostengono che queste operazioni economiche, fatte prima che l’imprenditore iniziasse a denunciare il pizzo, sarebbero state falsificate e attribuite ai soci della cooperativa. «In realtà – spiegano gli investigatori – sono frutto di reinvestimenti di capitali di provenienza illecita». L’Agroverde,sostengono gli inquirenti, veniva «utilizzata dalla criminalità organizzata per scopi illeciti sia da Stidda che da Cosa nostra, che camminano a braccetto».
Stefano Italiano ieri è apparso «sorpreso». Per anni aveva pagato il pizzo, poi aveva continuato a farlo con un suo cugino che avrebbe fatto parte della Stidda, poi, nel 2005, la svolta con la denuncia degli estortori, il loro arresto e la loro condanna. «Non volevamo pagare – disse Italiano – ma non si poteva. Le pressioni erano forti. E così, sbagliando, cedemmo. All’inizio erano solo 500 mila lire al mese. Chiesi a mio cugino, che era appena uscito di prigione, se poteva pensarci lui, ma poi le pressioni aumentarono». Da quando denunciò vive sotto scorta. Ieri ha detto solo poche parole: «Mi sento tranquillo, per me è un fulmine a ciel sereno, ma voglo chiarire tutto e subito».
(GM*)