Cinema come denuncia

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Tre storie ciascuna nel proprio tempo storico che partendo dai lontani anni del proibizionismo americano passa attraverso la Germania nazista per finire nell’ America di Bush.
Tre film tanto diversi per una stessa denuncia contro il fronte del sistema che travolge l’individuo che non lo sa affrontare. Tre registi che con delicatezza e sensibilità affrontano temi intensi e dolenti come l’infanzia violata e i disagi degli immigrati nella New York del Ground Zero.

di Giovanna Nobile
tratto dal n. 302 della Rivista SEGNO

Una lotta contro il male e l’arroganza del potere che finiscono per ricevere la giusta punizione che non basterà però a riportare il figlio rapito e mai più ritrovato alla madre. E con Changeling, nella Los Angeles della fine degli anni venti, Clint Eastwood ancora una volta ripropone i temi che gli sono cari raccontando con pudore e senza retorica la solitudine dei deboli, la sconfitta dell’individuo quando mancano la solidarietà della gente e il coraggio della ricerca determinata della verità. Al di là della vicenda personale che denuncia un periodo americano in cui il potere era il mezzo per commettere atrocità ed eliminare i deboli e i disturbatori della società, c’è uno spaccato del racconto dove il regista mette in risalto quanto importante sia questa solidarietà soprattutto quando quelli che contano hanno il Potere assoluto (per usare il titolo di un altro film di Eastwood) di vita o di morte sul cittadino indifeso. E quando questi deve essere giudicato normale da qualcuno che vuole dimostrare il contrario per renderlo innocuo.Il  ricovero forzato di Christine Collins, la madre nubile protagonista, nel reparto psichiatrico apre le porte delle mura di una fortezza dove con facilità medici e infermieri usano 1’elettroshock per sedare i ribelli e dalla quale quindi non si esce se non completamente devastati nella psiche e nel fisico. In una città dove la polizia uccide “non per spazzare via il crimine ma la concorrenza” nessuno e men che meno le donne sfidano il sistema. Un oscuro quanto elastico codice 11 dà licenza di segregare le sventurate che osano farlo. E Christine non vuole accettare di tenere il figlio che la polizia le ha riportato ma che sa non essere il suo.

La pura e semplice realtà di un fatto successo molto lontano nel tempo viene filtrata e resa dal regista in sequenze in cui si passa dagli orrori commessi dal serial killer (resi appena visibili sempre con la mente rivolta alla sensibilità di chi guarda), alla pena capitale di questi (mostrata volutamente e significativamente in tutta la sua orribile durata) passando attraverso una dolorosa ed estenuante lotta di una madre sola che non vuole arrendersi. Atti di un processo che stavano per andare al macero vengono riportati alla luce dallo sceneggiatore J. Michael Straczynski e viene realizzato un film che sembra fatto apposta per contenere tutti gli elementi di cui Eastwood si era servito nei suoi lavori precedenti creando dei capolavori. Basti pensare a quello più recente come Mystic River dove le violenze dell’infanzia segnano in modo irreversibile chi le ha subite tanto che nel film il bimbo più esposto alla vita, quello con meno difese, pagherà da adulto ancora, e stavolta con la vita, per l’ormai perduta innocenza e “con il rimpianto di una dolcezza del vivere che non tornerà più”.

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Ancora l’infanzia violata e il pessimismo sociale dopo Un mondo quasi perfetto a riportare l’attenzione sul cinismo di una nazione e sull’impossibilità per questo di “credere in qualsiasi valore di giustizia e tolleranza”. Tranne poi recuperare l’Amore in tutte le sue manifestazioni che come in Million Dollar Baby anche se non riesce a salvare dall’ineluttabile è presente fino al sacrificio estremo. E in Changeling pur nella consapevolezza dell’ orrore sembra  quasi che Eastwood voglia portare lo spettatore ad avere uno sguardo pietoso verso il delirante assassino e a puntare invece il dito contro chi avrebbe dovuto vigilare che questi misfatti non venissero commessi piuttosto che far tacere con ferocia chi li denunciava. La polizia non ha attenuanti, non può averne dal momento in cui toglie la libertà ai cittadini o interviene con le armi in nome di presunti pericoli. Il richiamo all’ amministrazione Bush è evidente per tutte le misure di estrema sicurezza adottate da questa dopo l’ 11 settembre in nome di una difesa della democrazia che viene minacciata invece proprio da queste. Ma nella Las Angeles del Proibizionismo, della corruzione e dei delitti di “legge”, c’è chi si espone, chi non ha paura di denunciare il potere come il reverendo Gustav Briegleb (un irriconoscibile ma sempre bravo John Malkovich) mentre una comune donna con il coraggio di madre come Christine Collins può diventare l’eroina degli oppressi. Con una scenografia perfetta e curatissima dai colori stemperati viene ricostruita l’America di Al Capone e delle sventagliate di mitra e i processi cui si assiste riportano al miglior Sidney Lumet.

Il bambino con il pigiama a righe

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E una corsa gioiosa di scolari per le vie assolate di una città tedesca già preannuncia tenebre se la città è la Berlino delle svastiche sventolanti, delle sentinelle che presidiano palazzi in cui si intuiscono comandi militari nazisti e se lo splendore di una festa privata tra specchi, luci e sfarzi è l’addio di un gerarca (il bravo David Thewlis) ai suoi amici perché promosso a più alte quanto oscure responsabilità. Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman (tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne) apre sulla memoria tragica di un genocidio ma stavolta è l’innocenza di Bruno (Asa Butterfield), otto anni, figlio del gerarca, a scoprire l’esistenza dei “diversi”, relegati in quella che il bimbo ritiene sia una fattoria al di là di un filo spinato elettrificato e che in realtà è il campo di sterminio che il padre è stato chiamato a dirigere. È l’unico posto abitato che dalla nuova residenza in campagna Bruno scorge in lontananza e la sua passione per l’avventura lo porta a oltrepassare la soglia proibita del suo desolato e piccolo giardino, a uscire dal suo imposto isolamento, verso quella dimora dagli spazi aperti che ai suoi occhi appare piena di vita anche se recintata. Il mondo di Bruno così si dilata, va oltre quel filo per incontrarsi con l’inferno del piccolo ebreo Shmuel (Jack Scanlon) di cui l’innocenza del bimbo sa cogliere soltanto la stranezza del nome e la famelica voglia di cibo e di affetto. Qualcosa incomincia però ad agitarsi nell’animo di Bruno. Per quanto innocente il bimbo ha una mente vigile e i suoi larghi occhi chiari sembrano cogliere certi disagi. Anche per la presenza in casa di un uomo stanco e silenzioso che, secondo il piccolo, piuttosto che esercitare la professione di medico quale dice l’uomo di essere stato, preferisce sbucciare patate e portare il “pigiama a strisce” sotto i pantaloni, come gli abitanti della “fattoria”. Nonostante i continui tentativi del padre e dell’ insegnante di spingere Bruno all’odio (“tutti gli ebrei sono malvagi”) il piccolo invece si ritiene un bravo esploratore per aver scoperto in Shmuel l’esistenza di almeno un ebreo buono, smentendo così l’assunto del suo tutore nazista. A differenza della sorella che alle soglie della pubertà si lascia prendere dall’ esaltazione di un mondo migliore che necessita dello sterminio degli ebrei e dall’ orgoglio di avere un padre che, strumento di morte, a detta del nonno sta “scrivendo la Storia”, il bimbo ascolterà soltanto il richiamo del cuore. Sarà egli ad entrare nel mondo di Shmuel, nel recinto, visto che questi non può lasciare il campo. E le conseguenze di questa decisione saranno terribili. Mark Herman più che mostrare lascia intuire gli orrori del periodo più tragico della Storia di tutti i tempi, passando attraverso l’agiatezza della famiglia del gerarca, che la guerra sfiora appena ma che pagherà con il dolore più grande che un uomo possa sopportare. Dolore impietrito, rappreso, davanti la porta chiusa della camera a gas su cui si chiude il film. Al di là non si può andare e nessuno sguardo potrebbe sostenere la vista di ciò che si nasconde dietro quella porta come lapide sulla tomba del Bene e dell’innocenza. Sul silenzio di un dolore senza alcuna speranza.

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Mark Herman, regista e sceneggiatore, uno degli esponenti di punta della nuova commedia inglese, ha abbandonato il suo “stile narrativo leggero ma ricco di suggestioni sociali” dei suoi precedenti lavori (Grazie signora Thatcher; Tutta colpa del fattorino … ) per misurarsi con il Dolore che proprio perché tale, per la sua portata e realtà terrifica, trova raramente la rappresentazione adeguata alla sua essenza. Come sicuramente avviene nell’animo di un bimbo che pur cogliendo la natura delle cose, tra bene e male, non può esprimerla con le parole e i concetti adatti. E forse Il bambino con il pigiama a righe si salva da tutti gli stereotipi che la Storia ha contribuito a cristallizzare proprio perché la realtà è vista attraverso gli occhi dell’infanzia. Mentre le figure femminili del film, la nonna e la mamma del bimbo, che pur prendono coscienza delle atrocità e ne inorridiscono, niente possono tranne che subirne le conseguenze.
Come per la madre (una sensibile e deli¬cata Vera Farmiga) il trovarsi alla fine davanti l’irreparabile, l’epilogo funesto e a rendersi conto che non ci sarà alcuna catarsi a lenire il suo strazio. I colori freddi della fotografia (Beno!t Delhomme) e l’ambientazione accurata in una Germania ancora senza macerie ma che già preannuncia la svolta verso la propria rovina, contribuiscono a dare alla storia il senso di morte a prescindere da quel campo di sterminio così scoperto alla vista ma altrettanto chiuso nelle tragedie che vi si consumano. Pur lasciando accuratamente sullo sfondo la tragedia di un popolo, lontana quanto può essere la distanza che Bruno percorre spesso per raggiungere Shmuel, tuttavia incombe e si materializza sempre più la catastrofe attraverso l’amicizia proibita dei due bambini stritolati da un meccanismo mostruoso voluto dagli adulti. E qui non c’è il matto Schlomo a inventare un Train de vie dove la tragedia “si stempera in una commedia degli equivoci satirica e fiabesca” (Mereghetti) né il Guido Orefice che proprio dalla tragedia trae magie per dimostrare al figlio che La vita è bella. Ne Il bambino con il pigiama a righe esiste davvero la porta che chiude su una camera a gas e gli ebrei che vengono spinti verso la morte, proprio per quella divisa a strisce ricordano i personaggi di Otto Dix nella loro dignità umiliata e nel volto devastato dalla disperazione. Immagini che non danno tregua alla sofferenza di chi guarda e non permettono lacrime liberatorie.

 

L’ospite inatteso

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Una vita ordinaria e spenta quella di Walter Vale de L’ospite inatteso come sbiadita e priva di vita sembra la cittadina del Connecticut vista attraverso la quotidianità del protagonista che spende le sue ore in solitudine senza un progetto di vita. Tranne il tentativo di imparare a suonare il pianoforte mentre le sue lezioni di economia all’università si trascinano nella più completa apatia. Finché un suo intervento obbligato a un convegno non lo porta a New York dove trova il suo pied à terre occupato da una coppia di clandestini, il siriano Tarek e la senegalese Zamab. Tom McCarthy dopo The Station Agent con r: ospite inatteso punta sulla delicatezza di sentimenti dei protagonisti e sull’incognita dell’incontro tra due mondi diversi.
Giocato proprio su questo impatto e sull’equivoco di individuare chi fra le due parti sia l’ospite, l’americano o gli extracomunitari, il film ha la straordinaria capacità di raccontare disagi e sospetti che i protagonisti vivono mentre, senza rendersene conto, la loro convivenza forzata si trasforma in amicizia che per Walter è energia vitale. Questi infatti (un perfetto Richard Jenkins) si lascia coinvolgere dalla passione di Tarek per il djembe fino a esibirsi al Central Park nella band di percussioni afro.
Le sue dita prima incapaci persino di arcuarsi sulla tastiera del pianoforte creano ritmi che sembrano liberare tutta la voglia di vivere dell’uomo come se la sua anima riscoprisse un senso di libertà riflesso dal pulsare della Grande Mela. TI regista punta sui risvolti della quotidianità dell’insieme di un gruppo multietnico rilevando come la realtà delle piccole cose porti a comprendere quale fonte di ricchezza possa contenere “l’altro da sé”.

 

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E come proprio in queste piccole cose si possano individuare i punti d’incontro fra le diverse culture e le possibilità di apertura verso mondi nuovi più che esporre concetti in una conferenza sui Paesi in via di sviluppo, come è chiamato a fare Walter. Uno per tutti la bellezza straordinaria dela prima esibizione di questi al Central Park o la sua intima gioia nell’ entrare in sintonia con Tarek nell’atto liberatorio di suonare il djembe senza pantaloni. È un mondo di calore umano che lo spettatore scopre quasi guidato per mano dai protagonisti che lentamente si svelano e si concedono mentre diventano più intensi e meno soli.
È l’intervento esterno, il sistema di immigrazione americano del dopo 11 settembre, a sconvolgere questo piccolo mondo fragile portando via Tarek in un centro di detenzione di immigrati irregolari e a farlo “scomparire” tra le mura invalicabili delle procedure legali che fanno pensare più al Cile di Pinochet che non alla democratica America. Lo stesso Walter, per sua scelta deciso a risolvere il problema, troverà davanti a sé un muro di gomma che non gli permetterà di evitare l’espulsione di Tarek e la conseguente sofferenza di Zainab. Affiora in tutta la vicenda l’umanità dei protagonisti, soprattutto nella presenza di Mouna (Hiam Abbas), la madre di Tarek, intervenuta a sostenere il figlio e che con semplicità e delicata femminilità farà riscoprire a Walter emozioni da tempo dimenticate.
È la sceneggiatura, dello stesso regista, un susseguirsi di acquerelli, quasi piccoli affreschi, sulla delicatezza di sentimenti, sofferenze e piccole gioie dei protagonisti mentre gli attori hanno il grande pregio di non invadere lo schermo con la loro presenza ma di entrarci in punta di piede in armonia con il discreto avanzare della loro storia. Uno spaccato che privilegia il privato per denunciare la perdita di identità di una nazione che soltanto da poco ha deciso di dare una svolta alla propria politica. Che sia finalmente arrivato il momento di riempire il vuoto lacerante del Ground Zero?

Giovanna Nobile

Cinema come denunciaultima modifica: 2010-02-15T19:49:00+01:00da aldo251246
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