MAFIA GLOBALIZZATA

giustizia,politica,riceviamo & pubblichiamo

MAFIA GLOBALIZZATA

Postato da Utente Consapevole – 28 Giugno, 2006

L’analisi di Salvo Vitale non solo è puntuale, ma può essere l’incipit di una visione ancor più chiara e completa della criminalità organizzata del nuovo millennio. Il binomio mafia-politica va inserito nel contesto di un circuito internazionale d’interessi verso cui oggi la mafia “globalizzata” si proietta, come asserisce il professore Carlo Marino, uno dei più valenti studiosi contemporanei della mafia, in un’intervista rilasciata a Paolo Papi (gracc.iobloggo.com). Al complesso giro di denaro non servono più “personaggi coloriti” come Provenzano, ma, continua il professore, occorre guardare oltre gli “specchietti per le allodole”, come Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo; piuttosto bisogna continuare ad indagare sul filone dei nuovi interscambi commerciali, ora, più fruttuosi e sicuri delle vie del traffico di stupefacenti, specie dopo l’ondata inarrestabile di sbarchi dei disperati che richiamano il controllo della Guardia costiera e della Guardia Finanza lungo quelle coste destinate anche all’approdo dei gommoni della “polvere bianca”.

Occorrerebbe allora fare il punto, sulla base delle indagini investigative svolte dalle Procure di tutta Italia e dalle forze dell’ordine, riflettendo sul fatto che ai latitanti d’eccellenza, ed ai loro fedeli, è demandato il compito del controllo armato del territorio, mentre a ben altri livelli, spetta il compito del marketing e dell’investimento del denaro illecito da “lavare” nel mondo dell’impresa, specie quella in crescita, nell’est europeo, nei paesi esotici, e in via di sviluppo, dove c’è anche un proficuo abbattimento dei costi insieme a leggi fiscali più permissive. La cerniera tra la “famiglia”ed il salto qualitativo al business internazionale sono, infine, le banche.

E di esempi la cronaca degli ultimi venti anni è piena. E’ utile rileggere alcuni particolari sulla ricapitalizzazione della ex Banca Sicula di cui D’Ali’ dal 1983 al 1994 (anno in cui è stata incorporata dalla Banca Commerciale) è stato amministratore delegato (gracc.iobloggo.com). “Alla fine degli anni ottanta, la Banca Sicula era entrata nel mirino degli investigatori…Nel luglio 1991, dopo anni di indagini, questi avevano consegnato al questore di Trapani Matteo Cinque un dossier in cui venivano formulate accuse nei confronti dell’istituto di credito. “Nel corrente anno – scrivevano gli investigatori – la Banca sicula ha deliberato, stante la volontà espressa dai maggiori azionisti, i D’Ali’, gli Adragna, i Solina, i Fardella (presenti nel CdA) ed altre notabili e imprenditori locali, un nuovo collegio sindacale per il biennio 1990-1992, composta da tre sindaci, tra cui Provenzano Giuseppe, in qualità di presidente […]. La Banca sicula ha deliberato nel 1990 e concluso questa primavera un’immissione di denaro fresco per 30.248.227.000 lire mediante l’emissione di 2.630.285 nuove azioni al prezzo di lire 11.500 ciascuna, di cui 11.000 a titolo di sovrapprezzo” . La questura chiede al magistrato Francesco Taurisano di indagare per verificare la provenienza dei fondi raccolti con l’aumento di capitale.A pagina 7 del rapporto si legge: ” Nella consapevolezza che qualcuno dei detentori del pacchetto di maggioranza della Banca sicula abbia subito una pressione esterna cui resisti non potest, messe in atto dalla mafia trapanese” . L’indagine porta a Giuseppe Provenzano, docente di tecnica bancaria all’Università di Palermo, ed ex membro della direzione provinciale del Partito Socialista. Il suo nome era già finito in due diversi rapporti dei carabinieri (del 27 novembre 1983 e del 10 aprile 1984), in cui venivano descritti i legami tra boss e prestanome a capo di società sospettate di appartenere alle cosche dei Greco di Ciaculli e dei Corleonesi. Tra i principali personaggi messi sotto inchiesta, lo stesso padre del professore, Sebastiano Provenzano, indicato da alcuni pentiti come affiliato a Cosa nostra senza che però ci fossero dei riscontri. “Giuseppe Provenzano – c’era scritto – era da ritenersi una sorta di consigliori della “famiglia” dei Corleonesi e ciò lo si deduceva anche dalla sua presenza nel collegio sindacale della “Solaris” del gruppo Notaro-Greco, riconducibile alla famiglia Greco di Ciaculli, alleata dei Corleonesi” . Negli stessi atti compariva il nome di Saveria Benedetta Palazzolo (moglie del capomafia Bernardo Provenzano) e quello del consulente finanziario di Totò Riina, il massone Giuseppe Mandalari.

Per ordine dell’allora giudice Giovanni Falcone, il 24 aprile del 1984 Giuseppe Provenzano era finito nel carcere dell’Ucciardone, ma un mese dopo aveva ottenuto la libertà con sentenza di proscioglimento dal magistrato Giuseppe Di Lello. Fatto sta che dodici anni dopo, nell’ottobre 1996, di Giuseppe Provenzano parlerà l’ex reggente della cosca di Altofonte, Francesco. Sempre le banche sono protagoniste della storia sulla mafia descritta nel testo pubblicato sul web, “I SICILIANI” www.claudiofava.it, valido strumento consigliabile a tutti coloro che volessero prendere nota di fatti e nomi che, oggi, ritornano sia nella politica, sia nelle università per approdare insieme nel giro giusto degli affari.

Navigando tra le righe dell’articolo di Gianfranco Fallaci appare ancor più chiaro il copione che ritualmente viene recitato da leader politici di spicco, titolari di cattedra compiacenti e banche in cerca di business facili da fare in Sicilia, magari in alberghi di lusso, per, poi, investire al di là dello Stretto di Messina. Leggiamo: “Una sera di molti anni fa, in un lussuoso albergo di Taormina, arrivò un signore grassoccio, sorridente, soddisfatto. Arrivò in compagnia di una attrice straniera, probabilmente svedese, prese in affitto la suite più lussuosa dell’albergo, brindò a champagne, se la spassò per tutta la notte, e quando a mezzogiorno scese nella hall per congedarsi, il portiere naturalmente gli presentò il conto. Era un conto salatissimo, con una cifra a sei zeri: le normali tariffe dell’albergo, gli spiegò. Il tipo grassoccio allora disse qualcosa sottovoce al portiere dell’albergo, scandì bene il suo nome, accennò ai suoi ottimi rapporti col proprietario, che era uno dei maggiori istituti di credito siciliani. Il portiere capì, s’inchinò lievemente, strappò la nota spese, la fece scivolare tra le cartacce: le banche, allora, potevano permettersi questo ed altro. Una volta – fu sempre in quegli anni – il direttore del Banco di Sicilia si presentò in tivù a spiegare che il denaro non ha odore, e che a lui non importava nulla se i suoi clienti se lo guadagnassero lavorando, piuttosto che spacciando eroina o ammazzando i cristiani: bastava che lo mettessero in banca, e che i conti quadrassero. … tutto quel che c’è in mezzo, tra la notte brava di Taormina e questo strano funerale di paese, è precisamente la storia delle banche siciliane. Una storia che sarebbe perfino buffa, se di banche e d’usura, da queste parti, non si potesse anche crepare…”. Erano gli anni ottanta, quelli in cui il costo del denaro, era già molto più in alto della media nazionale. Era il prodromo di una verità, che oggi è scontata, ovvero la terribile difficoltà di ottenere credito in Sicilia dove “ le banche investono solo il 64 per cento di quel che raccolgono; in tutt’Italia, mediamente, il 78…”, una regione in cui la costante è “la incredibile capacità delle nostre banche di andarsi a trovare, quando i soldi li prestano, i clienti più imbroglioni e inaffidabili (le “sofferenze”, e cioè i crediti che probabilmente non si riscuoteranno mai più, sono il triplo della media nazionale).

Ancora più interessante è il paragrafo in cui si fa riferimento alle inchieste che in quegli anni videro molti inquisiti tra gli scranni di Palazzo D’Orleans. Quelle inchieste spiegano come sia stato possibile “ a forza di foraggiare i mafiosi e i loro amici, che un giorno gli istituti di credito siciliani si trovassero senza una lira da prestare alle persone perbene”. Leggiamo “… E prendiamo la Sicilcassa, la seconda banca regionale. Gli ultimi dati parlano di sofferenze per 4457 miliardi. Di questi, 1837 se li sono spartiti i quattro cavalieri catanesi ed il conte Arturo Cassina da Palermo. Gaetano Graci, da solo, s’è portato all’altro mondo debiti per 680 miliardi: poco meno del patrimonio della Cassa, che è di appena 900 miliardi. Ora non c’è dubbio che, a chiunque altro si fosse trovato esposto per molto meno e non avesse voluto o potuto pagare – come non ha pagato Graci – qualsiasi banca avrebbe prima o poi pignorato la casa. Anche al cavalier Graci, per la verità, la Sicilcassa ha preso qualche palazzo. Gliel’ha preso con molta educazione, però: pagandolo. E pagandolo, qualche volta, molto più di quel che valeva. Così, ricostruiscono adesso i giudici di Palermo, il cavaliere poteva in parte rientrare dalle scoperture più clamorose. E i suoi debiti con la banca venivano in sostanza pagati dalla banca, o più precisamente dai suoi dipendenti. Perché i soldi per comprare i palazzi arrivavano da uno speciale fondo della Sicilcassa; un fondo istituito, originariamente, per garantire la pensione ai dipendenti…”. A seguito di queste “storie divertenti” finirono in galera il direttore della Sicilcassa Giovanni Ferraro, e con lui un manipolo di esperti, consulenti, affaristi, dirigenti, sino da allora insospettabili. Ma era solo l’inizio: i giudici misero dentro Giacomo Perticone e Giuseppe Frisella (ex vicedirettore generale ed ex vicepresidente del Banco di Sicilia, oggi docente all’Università di Palermo). E allora si è scoperto che alla Sicilcassa, in fondo, non avevano inventato nulla. Anche il Banco, infatti, s’era dissennatamente svenato per foraggiare – praticamente a fondo perduto – i cavalieri catanesi, pur sapendo che i loro bilanci presentavano «chiari sintomi di squilibrio». In più, questa banca era una vera e propria «cassaforte dei politici», i cui dirigenti, più che ai risparmiatori, rispondevano a Salvo Lima, Mario D’Acquisto, Rino Nicolosi e compagnia. Per non scontentare nessuno, al Banco avevano perfino istituito uno schedario dei raccomandati: “l’onorevole scriveva, un funzionario raccoglieva e protocollava, un altro provvedeva tempestivamente a segnalare tutti gli scatti di carriera del giovane protetto: vede, onorevole, che qui siamo di parola? Di questi episodi, a metà tra il crimine e il folclore, la storia del Banco è piena”. Tra i rispettabili dipendenti in carriera c’erano Lima Salvatore, perennemente assente, e la di lui consorte, per coerenza, anch’ella “dispensata” dal lavoro ma non dallo stipendio.

C’è, ancora leggiamo, la storia degli alberghi di proprietà del Banco – tra i più splendidi della Sicilia, come il Villa Igiea di Palermo (oggi entrato nel novero della catena Hilton-Caltagirone) dove i potenti dell’epoca potevano permettersi di soggiornare senza pagare il conto. C’è l’investimento del denaro dei risparmiatori sul progetto della Sitas di Sciacca, una operazione alberghiera favoleggiata negli anni Settanta e ridotta – con due soli alberghi funzionanti su dodici progettati – “a monumento perenne all’idiozia siciliana”. C’è ancora la corruzione. Calogero Mannino, oggi neo senatore ancora indagato nei procedimenti che lo riguardano, che di quel progetto “è stato uno dei più accaniti fautori, s’era imbarcato negli anni Settanta per Padova – dove stavano i partner economici dell’operazione – in compagnia di Francesco Bignardi, allora direttore generale del Banco, e del suo vice Gerlando Micciché, padre di Gianfranco, oggi coordinatore siciliano di Forza Italia. “Ed il Banco, paga oggi e paga domani, nella Sitas ha investito più di duecento miliardi. Soldi erogati a fondo perduto? Certo che no. Il Banco li riavrà tutti indietro, a rate, quando scadrà la dilazione concessa ai debitori. E cioè a partire dall’anno 2007, a un interesse del quattro per cento: un vero affare.” Oggi le conseguenze sono da una parte il processo in corso per distrazione e concussione a carico di ex consulenti della ex Sicilcassa, e dall’altra parte il disperato accorpamento del Banco di Sicilia in Capitalia; e ancora le indagini copiose che sono nate dal neo pentito Campanella, che non a caso, era un funzionario corrotto alle dipendenze, stavolta, del Credito Siciliano di Villabate.

Val la pena davvero leggere e rileggere testi e cronache del decennio 1980-1990, per comprendere che, dopo “Manipulite”, la fine della prima repubblica e della DC, gli scandali, le inchieste, e gli arresti eccellenti dei “big della latitanza”, il percorso è ancora lungo e non privo di nuovi scoop. Le holding di Massimo Ciancimino, come indicato dalle ultime cronache, nate tra Roma e Milano, cresciute a Ginevra, e volate poi dal Lussemburgo al Brasile, e forse già filocinesi, devono far riflettere sui nuovi copioni delle organizzazioni che all’ombra del lecito lucrano a scapito della collettività. E aiutano, specie noi cittadini, a capire meglio la svolta globale in cui va ora letto il complesso fenomeno mafioso, che facendosi beffa degli interessi particolari, macina bisogni e diritti del microcosmo sociale sotto il peso del business della macrocriminalità.

Utente Consapevole – 28 Giugno, 2006

MAFIA GLOBALIZZATAultima modifica: 2006-06-28T13:46:00+02:00da aldo251246
Reposta per primo quest’articolo
Questa voce è stata pubblicata in Archivi, cultura, GIUSTIZIA, POLITICA, riceviamo e pubblichiamo, STORIE VERE, ultimissime e contrassegnata con , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.